Machiavelli e le virtù educative dei mondi virtuali
Di Giacomo Pezzano
Almeno in Italia, Il Principe di Niccolò Machiavelli è un testo di cui chiunque conosce l’esistenza, o magari ha persino letto, anche solo in parte. Probabilmente, però, pochi hanno finora fatto caso al fatto che tra quei consigli su come tenere in piedi uno Stato, l’umanista fiorentino si spendeva anche in favore dell’utilizzo del videogioco e della realtà virtuale come strumento formativo. Certo, non esattamente alla lettera, considerando che scriveva nel 1513, ma comunque nello spirito: provo a spiegarti perché.
Secondo Machiavelli, poiché l’arte del comando procede a braccetto con l’arte della guerra, allora un Principe che si rispetti deve avere la guerra come vero e proprio chiodo fisso, per non farsi trovare impreparato quando servirà: «debbe mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra». Per allenarsi alla guerra e farlo continuamente, ci sono fondamentalmente due modi: «l’uno con le opere, l’altro con la mente». La seconda via è relativamente semplice: prevede di studiare, cioè di «leggere le istorie», traendo ispirazione dalle «azioni delli uomini eccellenti». La prima via è invece più articolata, perché richiede non soltanto di «tenere bene ordinati ed esercitati» i propri soldati, ma anche di utilizzare la caccia come espediente per «assuefare el corpo», rinforzandolo e abituandolo a sopportare i disagi e a conoscere la conformazione del territorio: in tutto ciò, il Principe deve «porre grandissima cura».
In questo modo, infatti, otterrà una «cognizione utile in dua modi»: da un lato saprà come meglio difendere il proprio paese e dall’altro lato saprà valutare meglio i territori sconosciuti, sfruttando quella «certa similitudine» tra le sue amate province toscane e quelle di altre zone, che permetterebbe alle prime di fare da modello per le seconde. Per chiudere in bellezza, Machiavelli sottolinea anche l’importanza di quelle che oggi chiameremmo le chiacchiere da bar, come mostrerebbe il caso di «Filopemene, principe degli Achei», il quale era tanto immerso nel pensare alla guerra che «quando era in campagna con gli amici, spesso si fermava e ragionava con quelli»: cominciavano così ad avanzare ipotesi, suggerirsi scenari, dare la propria opinione, proporre soluzioni, ecc. Oggi siamo tutti allenatori, ieri erano tutti generali!
Ma che cosa ci sta dicendo Machiavelli, più precisamente? Egli, generalmente noto per il suo elogio dell’arte della (dis)simulazione, sta sostenendo che giocare con realtà simulate, con i mondi virtuali, è una palestra utilissima per sviluppare o consolidare abilità e conoscenze nella “vita reale”. Evidentemente, gli ambienti simulati dell’epoca erano quelli fisicamente e biologicamente esplorabili con il passatempo ludico-formativo della caccia, o – come con Filopemene – quelli percorribili con la mente e il suo strumento virtualizzante per eccellenza, il linguaggio. Adesso, invece, stiamo prendendo confidenza con i mondi generati via computer, fatti di modelli, simulazioni, scenari possibili, ecc., che aumentano ed espandono la nostra capacità di esplorare la realtà, dando persino vita a un «realismo sperimentale»: oggi Machiavelli difenderebbe l’uso della serie Call of Duty e plaudirebbe a un Filopemene che videogioca online per condividere le strategie con gli amici – sono pronto a scommetterci! Con i videogame e le realtà estese, si ampliano dunque gli orizzonti dei nostri giochi mentali – nonché fisici: persino il meno interattivo e mobile dei videogiochi comporta pur sempre un qualche coinvolgimento del corpo.
Sì – se lo stai pensando: tra la guerra reale e la guerra videoludica c’è e sempre ci sarà una differenza abissale e molto più profonda di quella che la separa dalla caccia. Tuttavia, questo non è in discussione: un bombardamento vero non è uno giocato. Piuttosto, il punto è cominciare a prendere sul serio il potenziale educativo della forma-videogame, che resta tuttora oscurato dal peso che la cultura alfabetico-libresca ha avuto sul nostro mindset e sulle nostre istituzioni scolastico-formative.
Infatti, i nostri consolidati abiti educativi continuano a essere fortemente sbilanciati – a dir poco – in favore dell’apprendimento «simbolico-ricostruttivo», quello cioè unidirezionale e unidimensionale legato alle righe e alla linearità del testo, che prevede di percepire simboli (parole), decodificarli, estrarne il significato, interpretarlo e ricostruirlo nella mente, senza il bisogno di muoversi, o vedere e toccare qualcosa. Anzi, l’azione corporea ostacola un’attenta, accurata ed efficace lettura: prova a leggere questo testo facendo running! Eppure, esiste anche un apprendimento di tipo «percettivo-motorio», multidirezionale e multidimensionale (in 3D, potremmo ben dire), che passa per il coinvolgimento di percezione e azione in cicli ripetuti e accrescitivi, cioè comporta una forma di intervento diretto sulla realtà da conoscere, che in questo modo viene acquisita esperienzialmente – di prima mano e in prima persona. È quanto a scuola in genere troviamo circoscritto ai laboratori (quando ci sono, sono aggiornati e funzionano a dovere), o – in contesto extra-scolastico – alla trasmissione tradizionale della conoscenza artigianale in bottega.
Il fatto è quindi che i mondi virtuali offrono i presupposti per potenziare in modo eclatante questa seconda forma di apprendimento, incalzando le nostre abitudini pratiche e mentali più radicate, per le quali il vero sapere e la genuina conoscenza o sono scritti, o non sono tali. Difatti, il videogame, inteso come forma culturale espressiva in senso ampio, permette al disegnatore di configurare forme di azione e trasmetterle al giocatore, che potrà così confrontarsi e familiarizzare con un ampio spettro di comportamenti alternativi a quelli consueti: ciò significa che i videogiochi consentono di comunicarsi possibili (inter)azioni, ossia di comunicare attraverso azioni, di scolpire e registrare esperienze pratiche, piuttosto che storie (racconti, romanzi, canzoni, …) o sguardi (pittura, fotografie, film, …). Si vengono così a creare dei veri e propri «archivi» o «librerie» di azioni, che – dal lato del giocatore – offrono il corrispettivo “agentivo” del training fisico, cioè l’opportunità di agire giocando e sperimentando, di giocare e sperimentare con l’agire: gli ambienti videoludici si presentano addirittura come «yoga per l’azione».
Sia chiaro, la prevalenza dell’apprendimento e della cultura libresca è ben comprensibile, nella misura in cui – per intenderci – tradizionalmente la “gittata” di un libro di ricette in termini di numero di persone raggiungibili in diversi luoghi e momenti è molto più estesa di quella di un laboratorio culinario svolto dal vivo. Ma proprio qui casca l’asino: oggi non solo possiamo condividere video-ricette anziché ricette de-scritte (fu pioniere Giallo Zafferano, oggi basta aprire TikTok), od organizzare un laboratorio culinario a distanza o blended, ma possiamo persino metter su una cucina via videogioco o ambiente di VR. Ovviamente, un tiramisù fatto al videogioco non è come un tiramisù fatto nella tua cucina: questo può sì essere immangiabile, mentre quello nemmeno entra nel range del “mangiabile/immangiabile”; ma non vale lo stesso per una ricetta scritta di un tiramisù?
Da questo punto di vista, pertanto, Machiavelli mostra una profonda consapevolezza della necessità di combinare il più possibile l’apprendimento simbolico-ricostruttivo e quello percettivo-motorio, che corrispondono proprio ai due modi di esercizio nell’arte della guerra da lui suggeriti: «con la mente» e «con le opere», ovvero con i tradizionali testi scritti e con i mondi virtuali. Oggi, si parla sempre più spesso del bisogno di costruire un nuovo «umanesimo digitale»: forse, vale la pena ripescare anche le idee del nostro caro vecchio umanista fiorentino…